La perdita di un figlio durante la gravidanza è un fatto molto doloroso.
A distanza di tempo riesco a dare una dimensione più obiettiva delle motivazioni che hanno scatenato in me così tanto dolore.
Sono diverse e su diversi livelli.
Prima di tutto lo shock: è giunto dalla notizia che il battito non c'era.
Sapevo che qualcosa non andava, sapevo che molto probabilmente mi sarei sentita dire qualcosa di negativo, ma non mi ero calata concretamente nell'eventualità, non mi ero messa davvero di fronte alla possibilità di portare con me un piccolo bambino morto.
L'evidenza di una realtà che non si considera mai davvero, anche quando la si può supporre, è il ceffone più potente e sonoro che ho ricevuto.
Stordita dalla verità, ho cominciato muovermi in un territorio totalmente sconosciuto, senza parametri, riferimenti, senza sapere dove mi stavo dirigendo e neppure come.
I momenti successivi ad una notizia così sembrano concitati, sembra che non ci sia tempo, sembra che il tempo sia finito.
Ma non è del tutto vero, io ho partorito mia figlia tre giorni dopo la notizia.
Tre giorni lunghissimi, difficilissimi.
Sono rimasta sospesa.
Ero in aria tra l'attesa di un'evoluzione dei fatti a me totalmente sconosciuta, senza potere ancora fare i conti col vero dolore perché non mi potevo permettere di crollare, e senza fiato perché ignoravo totalmente cosa sarebbe stato il dopo. Ero già fuori dall'attesa di mia figlia, eppure ancora dentro alla sua attesa perché lei era ancora con me.
Ho letto che ad alcune donne occorrono veramente alcuni giorni per abituarsi all'idea di doversi separare dal proprio figlio, mentre ad altre donne, come me, quei giorni sono sembrati una violenza, una macabra imposizione di chi non capisce, non ha idea di cosa possa significare portarsi appresso una pancia sporgente piena di morte.
Quando ormai la realtà aveva preso del tutto forma e mia figlia aveva definitivamente lasciato il mio ventre, sono stata investita dal resto delle emozioni tipiche di questi eventi: prima un dolore lancinante, indescrivibile, qualcosa che toglie il fiato, le parole, i pensieri. Lacrime: un mare di lacrime. Insieme la solitudine, il vuoto, la tristezza. L'incoerenza di sentire male come se quel figlio fosse vissuto davvero e l'opinione comune che quel figlio non fosse davvero un figlio, ma uno scarto, una gravidanza, un qualcosa di indefinito che non aveva né spazio, né nome.
L'interazione con gli altri che mi ha causato spesso insofferenza, rabbia, incomprensione.
L'esigenza di reagire subito e presto, perché chi perde un figlio avendone già altri non ha lo stesso diritto di soffrire di chi non ha altri figli.
Forse si ha l'errata percezione che il primo figlio sia il più importante, gli altri sono accessori: come se il primogenito facesse la famiglia e gli altri la abbellissero. Quindi uno in più o in meno non fa differenza...
Poi il dovere di fare finta di nulla perché, quando si hanno altri figli, è a loro che si deve pensare, non è accettabile sottrarre loro tempo commiserandosi per i figli che, in quanto morti, non hanno più bisogno di niente.
In fondo a tutto un latente senso di colpa: come è possibile che sia morta senza che me ne sia accorta? come è possibile che sia morta proprio dentro di me?
Ma dopo Elia mi sono risollevata dai gomiti sui quali ero caduta con una forza di volontà immensa.
Io sapevo che mi sarebbe potuto accadere di perdere un figlio. Sapevo che più figli avessi cercato di avere, più mi sarei esposta all'amara legge di natura.
Così ho preso atto che quella volta era toccato a me.
Non ero la prima, né l'ultima, né la sola.
Solo chi resta seduto non inciampa mai.... ed io avevo scelto di camminare.
Noi desideravamo immensamente un altro figlio (vivo), dunque, anche se un po' ammaccati, non abbiamo perso la speranza e abbiamo tentato ancora, subito, perché accade che muoiano... ma non sempre.
Perdere la seconda bambina è stato il vero colpo di grazia.
Perché a quel punto, oltre tutto ciò a cui sarei nuovamente andata in contro, in termini di dolore, solitudine vuoto, assenza, ecc., mi ha travolto un senso di colpa gigantesco. Due perdite consecutive avevano fatto di me più una tomba che una madre.
Ho dovuto fare bene i conti con tutte le facce di questo dolore per uscirne, non bastava più sostenere che solo chi resta seduto non cade... perché anche chi cammina non sempre cade....
Si sa che ogni tentativo di mettere al mondo un figlio è un tentativo unico ed ineguagliabile. Si sa che perdere un figlio non rende immuni dal perderne altri.
Ma emotivamente perderne due a distanza di sei mesi mi ha lasciato totalmente destabilizzata.
Così io penso che 'due sia peggio di uno', perché il dolore, pur essendo lo stesso, porta con sé più senso di colpa, più rabbia, più disillusione, più amarezza, più sconfitta.
Non mi è bastato sentirmi ingranaggio della natura, né ho potuto risollevarmi dai gomiti, perché ero stesa a terra col naso nel fango.
Ero così arrabbiata!
Una rabbia incontenibile dissacrante, cinica e spietata: verso tutto e tutti.
E' stata una lotta fra me (quella che non ammetteva di sentirsi sconfitta) e me (quella che si sentiva totalmente sconfitta).
Mio marito mi guardava e scuoteva la testa dicendomi che non c'ero... non ero più io.
E io montavo d'ira, gli urlavo che non doveva permettersi di giudicare, perché io lì, viva e non impazzita era già una grandissima conquista.
Volevo un figlio (vivo) ancora.
Io un figlio lo volevo con tutta me stessa.
Quando la ginecologa mi ha annunciato che Noah era morta, dopo avere sussurrato che non poteva essere vero di dovere passare ancora per quella strada percorsa pochi mesi prima, le ho domandato: "Cosa devo fare? Cosa devo fare per avere un figlio vivo?"
Lei ha annuito... e ci siamo date da fare: entrambe.
Dovevo tornare in bolla: ho dovuto trovare una risposta più precisa a una domanda precisa: perché?
Perché i figli muoiono?
Perché non è bastato risollevarmi?
Perché non sono bastate la fiducia, la speranza e li coraggio?
Perché muoiono dentro di me?
Qual'è il senso di tutto questo?
Sono tornata in piedi dopo alcuni mesi di intenso lavoro su me stessa.
'Non sono morta perché due delle mie figlie sono morte, non sono viva perché due delle mie figlie sono vive', mi sono rialzata dal fango e ho ripulito per bene la faccia per il figlio che avrei potuto ancora avere.
Avevo un sogno e l'ho inseguito, senza mai perdere la speranza (anche quando era offuscata dalla rabbia), cercando ovunque tutto il coraggio che mi occorreva per inseguirlo e riprendendomi quella fiducia in me che la morte aveva portato via con sé.
Etichette: aborto, dolore, figlio, morte, piangere, solitudine