Mamme speciali…?

Ho letto un libro “dedicato alle mamme speciali”.
Il concetto è più ampiamente espresso così: “(…) noi diventiamo qualcosa di diverso da quello che eravamo. Perché il dolore ci forgia, ci mette alla prova e allo stesso tempo ci fa scoprire e maturare nuove e spesso inattese risorse personali. In una parola fa di noi delle persone migliori. Forse è questo il dono che i bambini speciali fanno alle loro mamme. Forse è per questo che i bambini speciali hanno delle mamme speciali…”
Nel dolore vale tutto, valgono tutti i punti di vista e se c’è chi trova la sua strada nel “sentirsi speciale” ben venga.
Io proverò a dare un altro punto di vista: il mio.
Tento di tradurre il concetto: il dolore ci rende migliori. Il dolore che ci rende migliori, ci è stato “donato” da un figlio che (aimè) è morto. Visto che, proprio in virtù della sua dipartita, questo bambino è stato capace di un tale dono, lui è speciale e, per una qualche proprietà transitiva, anche la sua mamma è speciale, oppure è speciale perché  è diventata migliore (grazie al dono).
La prima sensazione che ho avvertito, proprio a livello epidermico, è stata di una bella pacca sulla spalla e, in mezzo agli “speciali”, un messaggio: “Non hai tuo figlio (che è speciale), ma sei speciale!” (In mancanza d’altro… consolati così!)
Sai che fortuna!
La mia pelle sente questo concetto come un tentativo di consolazione…
Coloro che suggeriscono questa ‘strategia consolatoria’ sono gli stessi che stanno cercando di farsi strada nel lutto e provano ad agevolare altri nel trovare la loro strada (intenzione più che nobile).
Sono gli stessi che esprimono un concetto ormai assodato: tentare di consolare chi ha perso un figlio non solo è inutile, ma è addirittura sbagliato.
E’ sbagliato perché tentando di consolare si minimizza il dolore.
In realtà grazie all’avverbio “forse”, ripetuto un paio di volte, si esprime più un suggerimento di consolazione, cosa che potrebbe rendere meno grave lo scivolone.

Ammettiamo che io non abbia saputo cogliere il senso vero e proprio che si voleva attribuire a queste parole e diamo per scontato che non ci sia alcun intento consolatorio: vorrei ora analizzarle su una base puramente logica e razionale, soprassedendo sulla visione del dolore come dono...
Noi diventiamo diversi perché il dolore ci modifica. Nel processo di modifica attuiamo strategie tali da diventare migliori, quindi speciali.
Posto che non sempre cambiare significa migliorare (ma diamo per scontato che in questo caso si migliori d’ufficio), chi è migliore è anche speciale?
Spiego in cosa consiste la mia diversità: io oggi sono diversa perché consapevole.
Ho consapevolezza di cosa voglia dire perdere un figlio (anche due).
Ho consapevolezza di cosa siano quel vuoto e quell’assenza.
Ho consapevolezza di come si possa essere madre di chi non c’è più e non c’è mai stato per quasi tutti gli altri.
Ho perso la capacità di godere di alcuni dei piaceri della vita, ho perso una parte di innocenza e di “leggerezza”, ma distinguo molte più sfumature nei colori della vita, sono più attenta alle piccole cose e la mia scala di valori è mutata.
Come ha espresso benissimo una delle mamme a me vicine per ‘comunanza di dolore’, i miei aborti mi hanno fatto “diventare grande.”
Dire: diverso=migliore=speciale, non ha senso: non c’è alcuna conseguenza logica fra queste tre parole.
In realtà queste tre parole sono aggettivi che si avvicendano in una escalation di qualità sempre più positive, che potrebbero cercare di aumentare l’autostima?

Andiamo avanti nell’analisi.
Nel dire che “le mamme di bambini speciali sono mamme speciali”, si dice anche che le altre non sono speciali…
La vita è costellata di dolori… siamo proprio sicure che non ci sarebbero altre donne degne di far parte della categoria?
Appunto: perché dobbiamo finire con l’essere una categoria di donne?
Io sono una mamma come tutte le altre, sono la stessa mamma di prima, con in più la consapevolezza dell’aborto e a partire da questo non sono più esattamente la stessa.

Ultimo concetto da analizzare è quello dei ”bambini speciali”.
“Speciale”, come già detto, è un aggettivo.
Gli aggettivi si pongono accanto ai sostantivi per definirli meglio.
Quindi si definiscono meglio quei figli che ci sono morti come dei figli speciali.
Ma allora quelli vivi come li definiamo? Normali?
Non posso condividere che si facciano differenze fra i miei figli… non certo nell’insinuare che alcuni siano “migliori” di altri.
Se definiamo speciali quei figli che ci sono morti, non li rendiamo diversi da quelli che vivono (o vivranno)?
Eppure ci stiamo impegnando perché i figli che ci muoiono (a partire dalla fecondazione dell’ovulo), siano considerati figli come gli altri…
I miei figli, per me, sono tutti speciali per una sola ragione: sono i miei.
Fra i miei figli c’è una sola differenza: alcuni sono vivi, altri sono morti.

Se tutto questo panegirico ha l’obiettivo di trovare una buona ragione per la morte di alcuni nostri figli e una buona ragione nell’essere le loro madri, con me non ci riesce.
Io credo che i figli muoiano senza alcuna buona ragione, ma a volte riusciamo a scoprirne la ragione scientifica: può essere una malformazione, un’infezione, una fatalità…
Io non ho bisogno di trovare una buona ragione per essere la madre di un figlio (anche due) che non c’è, perché ce l’ho già: è essere sua madre. Forse è questo il dono che mi ha fatto.

Non mi dilungo mai così tanto, ma questa volta l’ho fatto per cercare di far passare un concetto: anche coloro che tentano di aiutare i colpiti dal lutto da aborto o perdita perinatale, pur avendo studiato, essersi certamente e lungamente documentati, dopo avere scelto con cura tutte le parole, perché sanno quanta importanza abbia ognuna di esse, non hanno una formula giusta per tutti.
Perché, come affermano loro stessi, siamo tutti diversi e ognuno ha la propria sensibilità.
Allora pongo un quesito: se fa sentire soli non trovare alcun riconoscimento del proprio dolore, come fa sentire trovare un riconoscimento del dolore dato in una modalità che non appartiene alla sensibilità di chi è in ricerca?
Rispondo io: ci si sente ‘solissimi’.
Qualcuno lungo il suo percorso di elaborazione, ad un certo punto, ha deciso senza chiedermelo che non faccio più parte dei ‘normali’ e mi ha decretata ‘speciale’, ma io non mi sento così.
Quindi dove mi metto?
Sto nel limbo.
Se è vero che nella comunità dei reduci da questo lutto c’è spazio per tutti e c’è ascolto per tutti, dovrei trovare spazio anche io. Eppure per me lo spazio c’è solo se mi adeguo ad una sensibilità che non mi appartiene.
Dopo una critica che mi rendo conto essere molto severa, il mio suggerimento: se si vuole davvero aiutare, si deve tenere conto di tutti, anche di coloro che non comprendiamo, ma se non siamo certi di saperci rivolgere a tutti, senza ferire alcuna sensibilità, allora dovremmo parlare solo a nome di noi stessi.
Quindi lo stesso concetto poteva essere espresso con altre parole, per esempio così: “Il dolore mi ha cambiata. Il dolore mi ha fatto scoprire e maturare nuove e spesso inattese risorse personali. In una parola io mi sento migliore. Forse è questo il dono che mi ha fatto il mio bambino speciale. Io credo che tutti questi bimbi siano speciali e credo che anche tutte le loro mamme siano speciali.”
In questo modo non sono obbligata a sentirmi speciale: io lo sono agli occhi di chi scrive, ma ai miei occhi posso essere un po’ ciò che voglio.
In ultimo, solo per eccesso di zelo, vorrei chiarire il concetto di ‘tutti’: tutti sono proprio tutti, non solo la maggior parte, o ‘tutti coloro che siamo riusciti ad ascoltare’.

Dedica a parte, mi sembra un libro ben fatto: ha una vasta bibliografia, è dettagliato e ad ampio raggio. Forse un po’ ripetitivo su alcuni concetti.
Il merito all’autrice va per avere osato su un territorio ancora vergine e davvero difficile.
http://www.ibs.it/code/9788895177632/cozza-giorgia/quando-attesa-interrompe.html

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