Normalmente io scrivo, da sempre.
I miei malumori, il disagio, ciò che di me non capisco,
trova forma se passa attraverso la penna.
La morte di Elia mi ha scosso talmente da sentirmi instabile
e, nel mio traballare, fissare le emozioni su un pezzo di carta, dare loro un
volto, un nome, una dimensione, mi permetteva di non cadere.
Questa esperienza mi ha obbligato a documentarmi su questo
mondo nascosto e anche io, come tutte quelle che hanno pubblicato testi sul
tema, sono rimasta sconcertata dalla chiusura e dalla difficoltà nel trattare
l’argomento, così ho deciso di dire la mia.
Principalmente mi ha mosso il bisogno di descrivere cosa è
un aborto interno nel secondo trimestre e poi cosa sono due aborti interni
consecutivi nel secondo trimestre.
Perché la sensazione che ho percepito è quella canonica: si
riduce tutto in un “Vabbé andrà meglio la prossima volta” e si chiude un
sipario pesantissimo.
In genere si dice che questi figli siano “persi”, perché
forse pronunciare “perso” è meno doloroso, meno impattante sul prossimo.
“Perso” lascia quasi ad intendere che lo si possa ritrovare…
Il termine corretto è “morto”, lo è anche quando di fatto lo
si è perso in seguito ad un’emorragia.
La morte di un figlio.
Una batosta enorme che si riassume con un “L’ho perso” e
tanti saluti, avanti il prossimo.
Invece no.
Intanto va detto che una MEF (morte fetale endouterina) va
partorita: per davvero.
Partiamo col fare una valigia in cui metti anche oggetti che
avresti usato se il tuo parto fosse stato di un figlio vivo. Per esempio gli
slip garzati, gli assorbenti post parto, le camice da notte…
Quella valigia va chiusa, portata con sé, coi documenti del
figlio che prima era vivo, poi il ricovero, le altre pance vive, il parto….
Ecco, per tutti quelli che liquidano la questione con un
“Vabbé”, c’è la descrizione di cosa ci sia dietro il loro “Vabbé”.
Questo è un mondo raccontato da pochissimi, con la
sensibilità di ciascuno dei pionieri che ci si è avventurato: è il mondo di
tanti visto con i soli occhi di alcuni.
Io in questo mondo non ci stavo, non trovavo luogo fra le
strategie di elaborazione di chi, con tanta passione, si era adoperato per
leggere le facce del dolore e cercare di dare delle vie d’uscita.
Non mi sentivo tra le ‘mamme di angeli’, ma nemmeno fra
quelle ‘speciali’, neppure fra quelle ‘graziate dal passaggio breve di un
figlio tornato al Signore’.
E’ umano cercare delle strategie di difesa e noi nel nostro
meraviglioso paese cattolico ne abbiamo una servita in tutte le sfumature possibili:
la fede.
Ma per me nulla da fare: sono troppo razionale per la fede.
Ho sentito la necessità di raccontare un’alternativa: quella
che parte dalla mera realtà e si fa strada attraverso la scelta di un atteggiamento.
Ho valutato tutte le opzioni che mi sono state proposte
finché ho trovato una viuzza in cui avventurarmi.
Ho preso una certa ‘fede’, non quella canonica, ma più
propriamente mi sono concessa di avere nuovamente ‘fiducia’, soprattutto nelle
mie capacità di incassare i colpi bassi possibili inferti dalla vita stessa.
Ho scelto di non
pormi più le domande che non avevano risposta.
Ho scelto di fare
senza tutte le risposte.
Il mio più grande risultato è stato quello di imparare a
fermarmi davanti ai non so.
Io non so perché i figli a volte muoiono e per quanto vaghi
in cerca di risposte, non troverò mai una certezza, se non quella razionale di
una possibile spiegazione scientifica.
Io non so perché alcune famiglie devono passare attraverso
questa esperienza e anche qui non c’è una risposta che non possa essere
confutata.
E’ difficile fare senza riferimenti fare senza certezze,
fare senza fede, fare senza un figlio (e poi due).
Ma è questa la mia realtà, senza false convinzioni: per me
sopravvivere e poi tornare a vivere è stata una progressiva accettazione del
‘fare senza’ un mucchio di cose.
Dover ‘fare senza’ è un confine solidissimo. Una barriera,
un contenimento invalicabile.
Io sto perfettamente eretta nella striscia di terreno certa
che si delinea in mezzo a tutto ciò su cui non ho controllo, per cui non ho
risposta e verso cui non mi posso difendere.
Conosco perfettamente i confini e conosco abbastanza bene i
rischi che corro violandoli.
A questo punto sta a me scegliere
ancora se assumermi i rischi di una violazione o restare lì dove mi sento al
sicuro.
Io sono artefice del mio destino attraverso la scelta consapevole di dove posare il
piede al passo successivo: nessun Dio sceglie per me. Ma forse Dio – il mio Dio
– è con me qualunque sia la mia scelta. Lui è nella forza che trovo, nella
fiducia che mi ostino a non perdere, nel coraggio che ci metto e nella speranza
che fa da motore alle mie scelte.
“Questione di biglie” è la mia strategia di sopravvivenza.
Lontana dall’occhio compassionevole che si usa avere oggi
verso questi fatti, lontana da molti degli strumenti e dalle strategie di
difesa più largamente sostenuti.
Con”Questione di biglie” voglio dire che questo non è il
solo mondo degli ‘angeli sul comodino’, ma è anche il mondo di chi un figlio ce
l’ha semplicemente morto e sepolto in un campo sconnesso del cimitero.
E’ anche il mondo di chi parte da se stesso per tornare a se
stesso, senza che nel mezzo ci siano artifici, raccogliendo consapevolezza e
conoscenza, di sé e delle proprie risorse personali.Etichette: aborto, angeli, dolore, figlio, mamme speciali, mef, morte fetale endouterina, questione di biglie