"Quanti figli hai?"

Dopo la morte di un figlio, questa è la domanda più difficile alla quale si deve rispondere.
Verrebbe da chiedere: "In che senso?"
Tu che mi stai ponendo questa domanda, cosa vuoi davvero sapere? Quanti figli ho partorito, quanti ne ho avuti con me, o quanti ne ho vivi?

All'inizio ero in difficoltà: dichiarare solo quelli vivi era come rinnegare quelli morti. Inserire nel computo anche quelli morti mi imponeva una spiegazione... la spiegazione comportava una reazione: stupore, dispiacere, imbarazzo, silenzio....
Nel tempo ho capito che la difficoltà veniva solo da me.
Era colpa della mia parte razionale: si ostinava a non voler davvero credere che quei figli che non avevo fossero figli veri. Ciò imponeva alla mia parte più emozionale di esprimere la loro realtà ogni volta che ne avevo occasione.
Così, i primi tempi, ad una domanda del genere non ce la cavavamo (il mio interlocutore ed io) solo con un numero buttato lì, ma era la storia della parte più dolorosa della mia vita e quel povero interlocutore si sarà pentito amaramente di aver posto una domanda che gli sembrava tanto banale!
Poi sono passata alla fase de: "La gente si aspetta di sapere quanti figli vivi ho: gli altri non contano...", e a denti stretti pronunciavo un numero che "rinnegava" quelli morti.
Mi rodeva moltissimo farlo, ma era l'unica scorciatoia per saltare l'imbarazzo, il dispiacere, il silenzio.
Nel frattempo la mia parte razionale ha cominciato a far pace con quella emozionale.
Oggi quel numero oscilla a mio piacimento.
Se ne ho voglia dico la verità, la spiego, pronta a sostenere il dispiacere, l'imbarazzo, il silienzio. Ma più spesso mi confronto con chi ha passato un'esperienza simile alla mia o con chi, nonostante non ne abbia esperienza, ha una sensibilità tale da non cadere né nell'imbarazzo, né nel silenzio. Qualche volta ho la sensazione di avere "informato" il mio interlocutore dell'esistenza di un mondo di cui tenere conto, qualche volta ho il piacere di parlare con qualcuno di chi non parlo mai.
Tutte le altre volte conto solo i vivi, senza rabbia, né difficoltà. Lo faccio solo perché in quel momento è la via più semplice: perché ho la sensazione che il mio interlocutore non capirebbe (e allora si sprecherebbero quei commenti che inquinano solo l'aria), oppure perché semplicemente non ho voglia di raccontare di chi non racconto mai...
Non computare i morti non significa né rinnegarli, né averli dimenticati.

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