Il bisogno di dolore


Le tre età della donna - Gustav Klimt

Opera meravigliosa che mi ha affascinato fin da ragazza.
Rappresenta il ciclo della vita di una donna: la nascita, la fanciullezza, la maternità, infine la vecchiaia. La vita ha un ciclo: è precaria, destinata a sfumare, di pari passo con la bellezza.
L'opera per intero non è quasi mai pubblicata, è usata molto spesso per rappresentare la maternità, ma mi sono sempre domandata perché. Quest'opera non rappresenta la maternità... Almeno non solo e unicamente quella.
Invece credo che raggiunga la sua completezza se guardata nel suo insieme: esprime magicamente, e insieme realisticamente, il nostro ciclo vitale.

Quello di molte, non di tutte.
Alcune non saranno madri, alcune non saranno madri di figli vivi, alcune non diventeranno fanciulle, alcune non saranno mai vecchie....
Eppure quest'immagine viene ridotta e usata per rappresentare anche la maternità che non porterà mai fra le braccia alcun bambino.
Lo trovo agghiacciante....
Mi domando perché ci sia bisogno di rimarcare ciò che non è, non è potuto essere e non potrà essere mai.
In generale l'iconografia legata a questo dolore è un po' tutta così: letti vuoti che non sono potuti essere pieni, peluche che non saranno stretti da piccole mani, piccoli indumenti preparati a mano che non saranno mai indossati.
C'è bisogno di esprimere il vuoto anche con le immagini. 
C'è bisogno di rappresentare il dolore e rimarcarne la parte più evidente: l'assenza.
Ho letto recensioni, opinioni di donne che apprezzano queste immagini: si trovano rappresentate e comprese. Sono spinte ad acquistare lavori che si presentano pieni di dolore per ritrovare il loro dolore. O forse tentare di dare un nome al loro dolore. O forse per non sentirsi sole, le uniche.
Io non sono riuscita facilmente ad acquistare lavori che si presentassero con un loro carico di dolore. L'ho fatto in un paio di occasioni, passando oltre la copertina, nella speranza che il contenuto fosse quello che avrei voluto trovare espresso fin dal principio: uscirne si può. Esiste un modo e in fondo non resterà solo il dolore di un'assenza, un letto vuoto, un pupazzo destinato a prendere solo polvere. Ma ad un certo punto questo dolore si trasformerà in qualcosa di meno struggente e soffocante.
Diciamo che io rappresento le figlie che non ho con l'immagine del mio libro: una combinazione di DNA venuta dall'amore, vissuta nell'amore, che ha trovato luogo nel mio cuore. Non voglio che resti tristezza dal loro passaggio, non voglio fermarmi sul vuoto dell'assenza, ma voglio tenermi la gioia della presenza che è stata e una certa fatalità legata alla combinazione delle loro biglie (il DNA), tale da avere decretato il loro destino. Molte delle cose che si fanno in questo 'settore' vanno nella direzione del 'non dimenticare'. 
C'è bisogno di restare nel dolore per non dimenticare, perché concedersi di non provare più dolore è come rinnegare.
Questi figli spesso restano il vero dolore. 
Ma penso che valga la pena spostarsi dalla sofferenza e attribuire altri e più gratificanti connotati a questi bambini e a questo aspetto della maternità.
E' difficile e faticoso. Non c'è una formula. Nessun testo fornisce una ricetta. Per me è stata solo una questione di volontà, mi sono chiesta: cosa voglio che siano i figli che non ho? Sofferenza? Vuoto? Infinito struggimento? Oppure i miei figli: quelli che ho avuto, che ho amato, che ho accolto e che hanno vissuto dentro di me?
Nel tempo, favoloso alleato, ho potuto modulare i pensieri, gli obiettivi e raggiungere il mio scopo.
Naturalmente è legittimo e incontestabile anche restare in una stanza vuota, di fronte ad un letto vuoto, con in mano un pupazzo impolverato.

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