Questione di biglie - il libro


Introduzione 
(da 'Questione di biglie' - il libro)

Sono una donna di 35 anni e da nove sono mamma.
Quattro anni fa la mia famiglia si è consolidata attraverso il matrimonio e il trasferimento in un piccolo paese della provincia ligure.

Il cambiamento di vita, dalla città alla campagna, dai servizi sotto casa ai servizi ad almeno 5, 10, 15 chilometri da casa, ha mutato gradualmente il mio ruolo nella famiglia.
La nostra qualità di vita è migliorata moltissimo, ma perché ciò fosse evidente anche a me e perché si potesse realizzare nella sua interezza, mio marito ed io abbiamo convenuto che avrei dovuto smettere di lavorare.
Nonostante avessi lavori solamente precari, spesso deludenti e demotivanti, questa scelta mi è costata carissima: sono cresciuta col principio che una donna può dirsi indipendente ed emancipata solo se anche lei porta uno stipendio a casa.
Potrei dire davvero molto su questo, ma quella che desidero raccontare è un’altra storia...
Accettando, mio malgrado, di definirmi “casalinga”, ho ottenuto la possibilità e il tempo necessari per fare ciò a cui ho sempre aspirato davvero: la mamma.
Tre anni fa è arrivata la seconda delle mie figlie e quest’anno sono arrivate le ultime due, ma sono morte ancora prima di poter nascere.
La morte prematura delle mie ultime bambine mi ha permesso di entrare in contatto con un mondo nuovo, tristemente addolorato e molto, molto solitario.
È un mondo davvero oscuro che quasi nessuno ha il coraggio e la capacità di esplorare.
Nonostante la casa sul monte, sono una casalinga internauta, raggiunta da internet: ho navigato parecchio in cerca di un piccolo faro nel buio...
Sono incappata in un articolo (“Genitorialità e lutto nella morte perinatale”) di una psicoterapeuta, Claudia Ravaldi, anche lei ferita da un simile destino.
In questo articolo, utile ed esaustivo, c’è una frase che mi ha particolarmente colpito: “...senza parole non si formulano pensieri. Un dolore cui non si dà voce è un dolore destinato a restare privato, perché mancano le parole per poterlo definire, pensare e condividere”.
Questo mondo è fatto soprattutto di parole con cui possono essere espressi i pensieri, i ricordi, i rimpianti, l’immenso dolore.
Tutte le parole hanno un grande significato: sia le parole dette che quelle non dette.
Le emozioni, descritte nelle loro più sottili sfumature, mi hanno permesso di definire il mio sentire che, in quanto raccontato è riconosciuto e tradotto per come è.
Avere una corretta percezione dei sentimenti che vivo, poter dare loro un nome, mi ha permesso di accompagnarli in una evoluzione che gli ha dato un terreno fertile su cui prosperare o arido su cui
svanire.
Le parole sono la base.
Allo stesso modo le parole degli altri hanno un grande peso: quelle dette, molto spesso irrispettose e quelle non dette... per rispetto o per incapacità.
Nella nostra cultura i figli esistono perché vivono, ma c’è una grande contraddizione: il ginecologo che ti lascia l’ecografia col “primo piano per l’album” a 10 settimane di gestazione, considera vivente quel
bambino, eppure, nella mia esperienza, quel bambino vivrà finché il suo cuore batterà, poi diventerà uno scarto istologico da analizzare senza troppa fretta.
Dunque noi siamo madri solo se i nostri figli vivono e finché vivono o lo siamo sempre?
Bisognerebbe restituire alla gravidanza la sua fatalità, oggi celata dalla prevenzione.
Ormai c’è la falsa percezione che sia sufficiente eseguire tutti i controlli prenatali per scongiurare il peggio... che il peggio, eventualmente, possa essere circoscritto nei primi tre mesi di gravidanza,
quindi sono rimasta davvero sconcertata quando, nonostante tutti i controlli, anche superato il primo trimestre il peggio è giunto, per ben due volte.
Non si può dire ad una donna incinta che rischia di perdere suo figlio, anche perché saperlo non renderebbe la perdita meno traumatica, né la scongiurerebbe, ma si può abbracciare una donna incinta che perde suo figlio?
È possibile abbracciarla anche dopo che lo ha espulso?
È possibile abbracciarla finché ha lacrime da versare per la sua dipartita?
È possibile non farla sentire assurda perché soffre per qualcuno che “ufficialmente non c’è mai stato”?
Ed ecco un esempio dell’importanza delle parole, della scelta precisa di alcune di esse: io non ho partorito le mie figlie morte anzi tempo, ma le “ho espulse”... come fossero scarti... appunto scarti istologici...
Quanta tristezza c’è nella crudeltà di ogni singola definizione?
A noi “genitori-non genitori”, di “figli nati-non nati” resta solo il vuoto, l’assenza, la solitudine, il silenzio.
A fronte di tutta questa solitudine ho dovuto trovare in me le risorse per non impazzire, accettare e convivere...
Sono partita da un primo punto inconfutabile: il lutto è doloroso e il dolore fa male e basta.
Il frutto di ciò che è venuto dopo è dipeso unicamente dall’atteggiamento.
Sono giunta alla conclusione che un fatto, un’esperienza hanno il senso che io attribuisco loro, così posso rimanere inchiodata nel dolore con la convinzione che ci sia un intento di qualunque tipo per farmi stare male, oppure posso usare il dolore per entrare in contatto con qualcosa di me che prima mi era sconosciuto.
Io sono fatta di due elementi principali: cervello e cuore.
Il cuore sente l’emozione e il cervello la razionalizza.
Ormai il mio cervello ha convenuto che non può evitare di dare ascolto al cuore perché non si possono ignorare le emozioni. Spesso deve anche accettarne la rotta, pur non capendo dove lo voglia portare,
perché scegliere una via ignorando le emozioni è come guidare con gli occhi chiusi...
Il mio cervello ha accettato, perché è scritto ovunque e i migliori luminari lo ammettono, che perdere un bambino non nato è da ricondursi ad un evento luttuoso, quindi è da gestire come tale in tutte le sue parti. Da bravo allievo ha eseguito tutti i gesti e compiuto tutti i passi che il cuore gli ha suggerito, senza capirne la ragione...
Se dovessi descrivere il dialogo fra cuore e cervello lo rappresenterei come due persone che si parlano separate da una porta chiusa: la comprensione l’uno dell’altro non è ottimale e l’emozione non trova un posto preciso, un valore preciso, non può sedimentarsi e diventare parte di me, finché non trovo la chiave per aprire la porta, allora il cuore trova le parole giuste per spiegare al cervello cosa sente e il cervello capisce precisamente dove mi deve condurre.
Non tollero che cuore e cervello non trovino una sintonia, mi sento a disagio, sono irrequieta e sto male.
Molto testardamente insisto e insisto, finché riesco ad aprire quella porta e trovata la sintesi mi pacifico.
Non so cosa mi permetta di aprire la porta, forse semplicemente il cervello abbandona il raziocinio e ragiona col cuore...
In questo dialogo ci sono io e la mia essenza più profonda: c’è la scelta di un atteggiamento.
In questo ultimo anno ho aperto diverse porte e ho scoperto quale sia l’atteggiamento proprio del mio cuore: lui è speranzoso, ottimista, coraggioso, testardo, perseverante e positivo.
Il cervello stenta a stargli dietro, ma alla fine si arrende, si adatta, qualche volta perfino condivide.
In questo percorso le porte sono come le Matriosche: aperta una ce n’è subito dietro un’altra.
C’è qualcosa di curiosamente accattivante in tutto questo perché è un continuo divenire.
In queste pagine c’è la mia esperienza fatta di cuore e cervello, ma anche di scienza, di società, di cultura e di trascendenza.
In fondo c’è la sintesi, l’ultima che decreta l’uscita dalla sensazione di lutto, ma non l’ultima in assoluto perché c’è sempre un’altra porta che aspetta di essere aperta...
Raccontare questa storia, dai fatti così come sono accaduti, ai pensieri così come si sono manifestati, rappresenta il quadro in cui sono stata catapultata e se è vero e inevitabile che non fossi pronta ad
affrontare eventi così dolorosi e improvvisi, è anche vero che gli addetti ai lavori, coloro che avrebbero potuto darmi gli strumenti per gestire il dolore o solo la tranquillità per lasciarlo fluire, hanno fortemente
zoppicato.
Nutro la speranza che le cose possano migliorare e che la mia esperienza possa essere d’aiuto.

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