Socializzazione del lutto perinatale

Girovagando per la rete, l’altra notte, ho trovato una discussione interessante, (anche se un po’ datata, quindi forse anacronistica) in merito alla ‘socializzazione del lutto perinatale’.
Il prof. Vereni, docente di antropologia, si poneva una domanda come persona che: “(…) di fronte a un dolore solo di recente socializzato pubblicamente si chiede cos'è cambiato nella società di cui fa parte perché quel dolore abbia trovato questa nuova forma di espressione”.

Se ho capito bene, si chiedeva se la possibilità di vedere il bambino nella pancia attraverso l’ecografia, fosse stata la molla che ha reso necessario socializzare un dolore fino ad allora vissuto privatamente, in quanto essa avrebbe attribuito indiscutibilmente l’identità di persona al figlio che, fino a pochi anni prima, non si poteva vedere, quindi riconoscere come tale, se non dopo la nascita.
Ovviamente questa discussione ha suscitato molte reazioni.
Ma non è mia intenzione soffermarmi su di esse, piuttosto vorrei cogliere la sua domanda e dare la mia risposta, perché credo che sia una buona domanda: è l’ecografia ad aver reso veri questi figli?
No, certamente no.
Noi mamme abbiamo sempre avuto precisa percezione dei nostri figli, con o senza ecografia.
Forse con l’avvento delle ecografie i papà possono partecipare di più e con maggiore coinvolgimento alla gravidanza.
D’altra parte, da quando ci sono le ecografie, è più difficile comprendere il comportamento più comune, sia delle persone qualunque, che del personale medico: come fanno, di fronte all'evidenza, ancora a sostenere che quei figli non erano figli veri e fare come se non siano mai esistiti?
Io credo che oggi questo dolore sia socializzato perché qualcuno, per primo, è uscito dal silenzio e ha scoperto che, così facendo, si sentiva meglio.
Dato che molti si sentono meglio socializzando il loro dolore, si sta cercando di rendere normale poterlo fare.
Perché molti si sentono meglio socializzando il loro dolore?
Trovo che il prof. Vereni abbia ragione nel sostenere che qualunque tipo di reazione al dolore sia legittima, perfino il silenzio, la negazione e la rimozione.
Mi trovo d’accordo con lui quando sostiene che il lutto sia un fatto privato.
Infatti, se questo lutto fosse riconosciuto, come è riconosciuto e rispettato il lutto di qualunque altra figura familiare ed extra familiare, probabilmente non ci sarebbe bisogno di renderlo pubblico come avviene. Ma il lutto per un figlio che muore durante l’attesa o appena dopo la nascita, non ha ancora un riconoscimento sociale, è seguito da un silenzio che viene da molte ragioni, fra cui certamente anche quella data dalla consuetudine: questo dolore è sempre stato taciuto, pertanto è così che va trattato.
Solo recentemente c’è stato un cambio di rotta e alcuni si stanno impegnando a passare un messaggio differente, con cui si spera di legittimare anche una modalità di espressione della sofferenza diversa dal silenzio.
Molte persone trovano giovamento nel parlare del proprio dolore attraverso la rete, con persone che hanno vissuto la medesima esperienza, perché spesso è l’unico modo che hanno per poter raccontare se stesse e sentirsi comprese.
Quando accade di subire un lutto di qualunque altro tipo, le cose sono gestite in maniera molto diversa.
Spiego con un esempio pratico: quando è morta mia madre, ho ricevuto telegrammi di condoglianze, offerte di sostegno affettivo, abbracci e la presenza di tutti i miei cari in un momento di saluto a mia madre: il suo funerale. Nel periodo successivo, mi sentivo domandare come stavo, come procedeva la mia vita senza mia madre. Ad alcuni faceva piacere ricordare di lei alcuni dettagli, aneddoti, occasioni di condivisione. Mia madre è morta e tutti ne hanno parlato, tutti lo hanno riconosciuto, tutti (ognuno a proprio modo) mi hanno fatto sentire la loro presenza.
Ancora oggi capita di ricordare mia madre, segno che lei è esistita e ha inciso, in qualche modo, nella vita di coloro che l’hanno conosciuta.
Per le mie figlie non è stato così: partiamo pure dal fatto che non ci è stato nemmeno riconosciuto da subito il diritto di scegliere se seppellirle o meno.
Pertanto la socializzazione è divenuta indispensabile: io stessa ho sentito la necessità di renderlo pubblico in ogni minimo dettaglio. Per me lo scopo non è tanto quello di trovare consolazione, né sentirmi meno sola in compagnia di tanti altri (obiettivo generalmente più comune), piuttosto è quello di portare all'attenzione di coloro che mi incrociano, il bisogno di riconoscimento sociale di questo lutto. Un lutto tanto invisibile da rendere necessario inventare una categoria specifica in cui ricondurlo, quello della morte perinatale.
Dunque, per me parlare pubblicamente di ciò che mi è accaduto, ha senso nell'ottica di fornire alla comunità il mio personale e minimo contributo, affinché trovi e affini una modalità accettabile con cui relazionarsi verso chi vive questa pena, così da permettere a chi soffre di non sopportare più l’onere di gestire l’incapacità altrui.
Preso atto che la socializzazione aiuta, sotto molti punti di vista: consolando, facendo sentire meno soli, consentendo l’informazione e la divulgazione di una sofferenza per molti acuita dal silenzio, trovo che sia interessante guardare alle modalità di socializzazione che a volte sono adottate.
Dovendo far sentire forte una voce spesso inascoltata, i toni devono alzarsi tanto da destare l’attenzione.
Anche per me, che vengo da quel lutto, certi messaggi arrivano talmente urlati da essere insostenibili, addirittura fastidiosi. Suonano più come un bisogno di non uscire mai da un dolore che si perpetra e ci si trascina in eterno.
Alcune modalità di espressione di questo lutto risultano pesanti anche per chi da quel lutto proviene, immagino che siano molto più che incomprensibili per tutti gli altri.
E’ vero che la società deve riconoscere questa sofferenza, è vero che deve imparare a relazionarsi con essa e accompagnare chi la vive ma, posto che sia legittimo, come detto, elaborare ed esprimere il proprio dolore in qualunque modo, altra cosa è aspettarsi che gli altri ci rimestino con noi all'infinito.
Non è affatto facile rapportarsi col nostro dolore. Non lo è per noi, lo è ancor meno per chi non lo potrà (fortuna sua) comprendere mai davvero.
Il Prof. Vereni scrive “(…) riconoscere che un dolore ha assunto una forma socialmente accettata non significa ammettere che sia universale nel tempo e nello spazio, né considerarlo come l'unica forma ragionevole di reazione a una perdita perinatale, quasi che chi continuasse a elaborarlo (anche con la rimozione) nel privato altro non sarebbe che uno scellerato o un represso. Le persone che conosco che hanno subito questa perdita sono persone sensibili, non certo mostri, ma non racconterebbero mai questo loro dolore in pubblico, a estranei, su un blog. Il loro modo di affrontare (superare/rimuovere) il dolore forse appartiene a un'altra epoca, forse è addirittura fuori moda, ma io credo che sia altrettanto legittimo di chi invece ritiene necessario esporlo pubblicamente. Ognuno ha diritto di affrontare il proprio dolore come meglio crede, ma chi lo rende pubblico avrà in più l'onere di vedersi interrogato sulla forma di quella sofferenza, senza che questo costituisca automaticamente un insulto.
Sono totalmente d’accordo col professore.
Sono convinta che il primo passo, estremamente importante e necessario per noi che abbiamo scelto di esporci con l’obiettivo di riconoscimento e accettazione, sia fornire risposte genuine a tutte le domande che vengono poste, anche se sembrano banali, anche se feriscono (senza volere), perché ogni domanda è legittima, quando manca quasi totalmente la conoscenza. Ogni domanda offre lo spunto per raccontare un po’ di questo mondo e io credo che cogliendo queste occasioni, a poco a poco, la cultura di questo lutto si insinuerà nella società.
Non serve fare polemica sulla natura delle domande, perché, oltre a spostare l’attenzione da ciò che conta mettere in luce, si impedisce lo scambio di pensiero, unico mezzo con cui si può far emergere un nuovo punto di vista.
Inoltre polemizzare dà l’impressione che solo noi possiamo parlare di noi e gli altri possono solo ascoltare, apprendere e tacere. Così un pensiero non si spiega, si impone.
Spero di trovare altri spunti utili come questo.
Grazie al prof. Vereni


Fonti:
http://pierovereni.blogspot.it/2010/01/lutto-perinatale.html

http://pierovereni.blogspot.it/2010/01/sul-lutto-perinatale.html

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